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FLAVIA CORTONICCHI

Flavia Cortonicchi. Flavia delega alla fotografia ciò che non riesce a esprimere a parole, quelle che mancano quando ci si confronta con l’assenza, con il vuoto incolmabile di una perdita. Ci affidiamo con fatica ad esse per spiegare ciò che la mente stenta a comprendere.

La fotografia, grazie alla sua immediatezza e accessibilità, si presenta come detentrice del vero, di ciò che abbiamo davanti, degli eventi vicini e lontani che ci riguardano. Viviamo nell’era dell’immagine, consumiamo e produciamo fotografie, spesso sorvolando la costruzione e il retroscena che dà loro vita; riflettiamo poco sul concetto che dietro ogni immagine c’è il fotografo; un umano imperfetto per definizione, il cui impatto per quanto esteticamente distaccato possa sembrare, è sempre presente.

È sul fotografo che vale la pena concentrarsi, perché per chi fa fotografia indipendentemente dal profitto economico che ne può trarre, rivela una parte di sé, sempre. L’utilizzo del mezzo fotografico come forma di esternazione e dialogo con noi stessi è storicamente ripercorribile; ne troviamo esempi lampanti come nel caso di Francesca Woodman ed altri meno diretti, esteticamente espliciti nel parlare degli altri ma che in fin dei conti raccontano la storia di chi si cela dietro l’obbiettivo (vedi Diane Arbus, Antoine D’Agata e Nobuyoshi Araki).

Nel caso di Lei, un progetto iniziato dopo la perdita della nonna, potremmo parlare a lungo delle qualità rimarginanti del mezzo fotografico, di come ci aiuta a comprendere la tragedia permettendoci di sviscerare il dolore, di come ogni negativo è un cerotto su una ferita aperta. Flavia ripercorre con i suoi scatti, fatti di luoghi e di oggetti, la memoria che la lega a una persona scomparsa, a lei cara. Dialoga in termini fotografici con l’assenza, ci mostra una sedia vuota, una collana di perle e un capannone, dove andava con la nonna a prendere l’acqua di sorgente; lo stesso luogo che ora appare vuoto, dismesso, ma che un tempo faceva parte della storia e del legame condiviso da due persone. Per quanto vuote, le fotografie sono piene, la sedia, il capannone e le perle; noi non lo vediamo ma, poco importa, Flavia sì, ed è la sola cosa che abbiamo bisogno di sapere.
Niccolò Fano
 

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